PESCE

Il pesciolino e la rete

Posted on 21. Feb, 2011 by in Lettere

L’aula del tribunale era gremita di persone e il giudice faceva fatica a tenere a bada quel brusio fastidioso, che si sentiva in sottofondo. Io, avevo chiesto di sedermi tra la gente, forse perché avevo ancora paura, o per una sorta di intima autodifesa. Non volevo avere il benché minimo contatto con lui! Per un attimo soltanto i nostri occhi si sono incontrati e un brivido mi è serpeggiato giù per la schiena. Era sempre lo stesso folle con lo sguardo arrogante e beffardo di chi non si curava di nulla e di nessuno; di chi si sentiva onnipotente; di chi credeva di poter fare e avere ogni cosa che desiderava, forse perché nella sua mente malata pensava che tutto gli fosse permesso e dovuto! Mentre il giudice parlava contestandogli tutti i capi d’accusa, ho rivissuto sequenza per sequenza, come in un film dell’orrore, gli ultimi tre anni fino al giorno del suo arresto. Lo conobbi una sera d’estate in una discoteca sul lido, era simpatico, elegante e con un tono di voce meraviglioso; quella voce che poi sarebbe diventata la mia persecuzione! L’aria frizzantina e il profumo del mare, fecero tutto il resto: m’innamorai perdutamente di lui! Dopo solo tre mesi mi chiese di sposarlo ed io pensando di aver trovato il mio “Tutto”, subito acconsentii. L’idillio durò solo pochi mesi, dopo di che venne fuori la sua vera natura, dispotica e violenta di marito padrone. Cominciò a trascurarmi e a trattarmi male. Quasi tutte le sere dopo cena usciva con gli amici, per tornare poi a notte tarda, molte volte anche ubriaco fradicio. Se protestavo per il suo modo di agire mi insultava e mi picchiava! Per non parlare poi del mio ruolo nel menage familiare, che era relegato soltanto a serva e schiava; perché per il resto decideva e comandava solo lui! Non mi dava mai nulla per le mie piccole esigenze, molte volte non mi lasciava neppure i soldi per la spesa e poi la sera pretendeva una lauta cena! Per non chiederli ai miei, che non sospettavano di nulla, di nascosto mi misi a fare le pulizie nel condominio dove abitavamo. Ho detto di nascosto, perché non potevo uscire, né avere amiche; mi impediva addirittura di telefonare a mia madre, alla quale ogni volta dovevo inventare delle scuse. Una volta approfittai della sua calma momentanea e gli chiesi il perché del suo comportamento; mi rispose che era sua diritto, poiché ero una donna e le donne erano state create solo per servire e ubbidire ai loro uomini! E che più lo infastidivo con le mie domande, più sarebbe stato – peggio per me! Non cambiò il suo atteggiamento neppure quando rimasi incinta del nostro bambino. Una notte, dopo l’ennesima sfuriata, andai in ospedale con minaccia d’aborto, per i troppi calci che avevo ricevuto nella pancia. Ma il Signore volle che il bambino vivesse, e quando nacque decisi che non doveva assolutamente crescere con quell’uomo così violento e dispotico. Mi feci coraggio e raccontai tutto ai miei genitori, che immediatamente una sera di nascosto, mi riportarono con mio figlio nella casa natia. Mio padre senza por tempo in mezzo, iniziò le pratiche della separazione; pensavo che con questo fosse realmente finita, ma non fu così perché quello fu l’inizio di un tormento ancora peggiore. Cominciò a telefonarmi in continuazione, minacciandomi delle cose più orrende se non fossi tornata con lui, per non parlare poi dei messaggi osceni e ingiuriosi, che mi mandava ogni giorno. Si appostava con la sua auto proprio di fronte al palazzo in cui abitavo con i miei, tanto che avevo paura anche di uscire. A nulla valsero i vari interventi della polizia, smetteva per un po’, per riprendere poi peggio di prima. Fino a che una sera, me lo ritrovai improvvisamente dentro casa. Aveva aspettato che i miei genitori uscissero e per entrare aveva usato la chiave che avevo prima di sposarmi e che nella fretta di fuggire, avevo dimenticato a casa nostra. Prima cercò di rabbonirmi con false promesse, poi vedendo che ero ferma nelle mie decisioni, raggiunse la camera da letto dove dormiva beatamente il bambino, con l’intenzione di portarlo via. Fui più lesta, mi misi tra lui e la culla e cominciai a gridare più forte che potevo. Fu allora che impazzito del tutto, corse in cucina, prese un coltello e cominciò a colpirmi alla cieca. Prima del buio più profondo mi ricordo soltanto i singhiozzi di mia madre sopraggiunta in quel momento e due poliziotti (i quali, ho saputo dopo, erano stati chiamati dalla vicina che mi aveva sentito gridare), che cercavano di immobilizzarlo. Il risveglio in ospedale, con mamma che mi accarezzava una mano e papà con gli occhi chiusi, forse per allontanarsi un po’ da quella realtà – che gli faceva tanto male! Se pur nella disgrazia ero stata fortunata; i colpi anche se li avevano sfiorati, non avevano leso nessun organo vitale; mi sarebbero rimaste molte cicatrici, ma ero viva e potevo stringere ancora tra le braccia il mio bambino! Il battere del martello, che annunciava la sentenza, mi riporta di colpo alla realtà. Condannato a tantissimi anni di reclusione, senza nessuna possibilità di appello; il mio incubo era finalmente finito! Mi allontano dall’aula e a passo spedito vado fuori. Sta iniziando a piovere, non ho l’ombrello ma non importa, lascio che la pioggerellina fresca scorra sul mio viso; si mescola a lacrime di sollievo. Mi sento come un pesciolino, che riuscito a fuggire dalla rete, muove velocemente le sue pinne per allontanarsi dal pericolo e raggiungere il suo branco. Riassapora la sua libertà, piroettando felice nel profondo blu del meraviglioso mare della vita.


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